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Il trailer di "Shark Preyed", film-inchiesta sulla caccia allo squalo (che mangiamo senza saperlo)

2025-06-06 230 Dailymotion

Cento milioni: sono gli squali e le razze uccisi ogni anno. Una cifra impressionante, che ha portato a una riduzione della popolazione del 70% negli ultimi 50 anni e soprattutto dagli Anni 90. Il 37,5% di queste specie, circa un terzo, è a rischio di estinzione, con gravi conseguenze su tutto l’ecosistema marino. E i responsabili della mattanza, i veri predatori, siamo noi. Da questi numeri impressionanti sono partiti Andrea e Marco Spinelli per girare il documentario Shark Preyed. 

[caption id="attachment_2574674" align="aligncenter" width="768"] (ufficio stampa)[/caption]

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Un film che è un atto di denuncia ma anche un progetto di riabilitazione dello squalo, il cattivo del mare per antonomasia, nell'immaginario popolare come in quello cinematografico (basta ricordare come, dall’anno di uscita di Lo squalo, di Steven Spielberg, sia aumentata la pesca mirata, portando a una decimazione lungo le coste americane). Un animale cardine nel mantenimento dell’equilibrio della biodiversità marina è stato così storicamente demonizzato che è attualmente a rischio di estinzione. «Non è solo un’inchiesta», spiegano gli autori, «ma un viaggio di consapevolezza su un’emergenza ambientale ignorata».
Il trailer di Shark Preyed film documentario sulla caccia allo squalo
Shark Preyed è il risultato di oltre tre anni di ricerca e riprese. Immagini che «svelano ciò che si “nasconde” dietro la pesca e il commercio della loro carne. Con l'obiettivo di sensibilizzare le persone sul suo commercio legale, aumentando la consapevolezza sulle minacce che gli stessi squali affrontano nei nostri mari». Già, perché secondo il Food Balance Sheet della FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura) nel 2017 circa il 3% del consumo totale pro capite di prodotti di pesca e acquacoltura era composto da elasmobranchi (squali e razze).

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Verdesca, palombo e smeriglio? Mangiamo carne di squalo senza saperlo
Verdesca, palombo, smeriglio, spinarolo, mako o gattuccio sono nomi comuni nei reparti frigoriferi dei supermercati e sui menu dei ristoranti: nomi che nascondono la verità. È squalo. Molti di questi animali sono in pericolo, alcuni addirittura a rischio estinzione. Eppure il commercio di queste carni è perfettamente legale e l’Italia è tra i principali protagonisti. Tra il 2009 e il 2021 siamo stati il terzo importatore mondiale, con quasi 98.000 tonnellate di prodotti derivati, tra cui oltre 1.700 tonnellate di pinne. E il consumo di carne di squalo sembra essere aumentato a livello globale, raddoppiando dagli anni ’90, a scapito della salute dei mari e anche della nostra. Un business globale di cui si parla troppo poco.

Il WWF consiglia a tutti i consumatori di evitare il consumo di squali e razze. E a questo scopo invita a familiarizzare con i nomi comuni delle specie, leggere attentamente le etichette e non acquistare mai prodotti privi di adeguata etichettatura.

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Ma il problema non è solo degli squali: le conseguenze per l'ecosistema e la salute umana
Il problema non è solo degli squali. Essendo predatori al vertice della catena alimentare, questi animali giocano un ruolo cruciale nel mantenere la salute e l’equilibrio dei nostri oceani: il declino della loro popolazione ha conseguenze significative anche sulla biodiversità marina e sulla stabilità degli ecosistemi.

Non solo: uno dei rischi principali per la salute umana che può derivare dal consumo di squali e razze, avverte anche il Wwf, è legato alla contaminazione chimica delle loro carni, che possono contenere ad esempio metalli pesanti, inquinanti organici persistenti (POP) perfino plastiche. Ad esempio, la verdesca è fortemente impattata dai rifiuti che finiscono in mare. Nelle sue carni sono stati rilevati livelli di mercurio e di composti organici alogenati al di sopra di quelli consentiti dall’Unione europea per i prodotti ittici.

Nello squalo smeriglio sono state trovate significative quantità di microplastiche, di contaminanti organici persistenti (PCB, PBDE) e di metalli pesanti (come il mercurio, piombo e nichel). La contaminazione è un tema che si aggiunge alla pesca eccessiva e che potrebbe aggravare la situazione per una specie considerata “in pericolo critico” dalla IUCN (Unione mondiale per la Conservazione della Natura), sia nell’Atlantico nord orientale sia nel Mediterraneo.

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